Il mare potrebbe essere la perfezione…immagine per occhi divini.
Lo scrive Baricco nel suo Oceanomare, il libro che racconta il mare e lo conferma anchechi gli ha dedicato una vita intera. C’è stato infatti qualcuno che il mare lo ha raccontato nell’unica maniera possibile che conosceva. Entrandoci dentro.
Esplorandolo.
Entrandoci dentro, sfidando ogni forza, avversità, difficoltà.
Conoscerlo significa viverlo.
Sylvia Earle ha 82 anni oggi ed ancora è detentrice del record d’immersione in profondità senza collegamento in superficie. Ha fondato un’organizzazione Mission Blue e sulla sua attività che mira a salvaguardare i fondali degli oceani che tanto ha amato studiare, scoprire e osservare.
C’è un documentario su Netflix che racconta la sua attività che lei ha iniziato da giovanissima, subito dopo la laurea. Un’avventura in mezzo agli abissi del oceano. Una vera e propria sirena che si è calata in quel luogo dove trovare se stessi è l’unico atteggiamento per poterlo vivere pienamente e ci è anche vissuta durante un esperimento
Lei dice in una recente intervista a National Geographic che l’ha appunto definita; ‘ Explorer in Residence’.
“Le storie più belle sono quelle vere. Essere vivi è un miracolo. La natura, ovunque si guardi – che sia la struttura di una foglia, l’esistenza di un fungo, la vita stessa – , è motivo di infinita meraviglia”
Nel 1970 ha vissuto per due settimane a 15 metri sotto il livello del mare con tre colleghe, nove anni dopo Sylvia ha camminato nel fondo degli abissi delle isole delle Hawaii, era a 381 metri di profondità. E’ stata la prima donna chif scientist della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA). Dal 1998 è explorer-in-residence (la prima donna explorer-in-residence) della National Geographic Society. È stata ribattezzata “Sua profondità” da New Yorker e New York Times, “Leggenda vivente” dalla Biblioteca del Congresso, “Eroina del pianeta” da Time.
In una lunga intervista al Washington Post raccontò le melodie delle balene, della loro diversità negli anni, della loro complessità. E parla delle canzoni delle balene quando afferma: “Le canzoni degli anni Sessanta sono incredibilmente più belle di quelle degli anni Settanta”.
E sull’importanza di uno scienziato di saper comunicare risponde in maniera semplice e diretta
“Le storie più belle sono quelle vere. Essere vivi è un miracolo. La natura, ovunque si guardi – che sia la struttura di una foglia, l’esistenza di un fungo, la vita stessa è motivo di infinita meraviglia. Quando sento qualcuno, in particolare un bambino, dire “Sono annoiato, non so che cosa fare”, mi sembra incredibile e frustrante al tempo stesso: ci sono così tante cose da osservare, così tante cose da capire, così tante domande a cui trovare una risposta, che non riesco a concepire la noia – a meno che non si sia costretti a stare in una qualche coda senza muoversi, alla cassa del supermercato o qualcosa del genere. Ma anche in quel caso, hai sempre la tua mente a disposizione. Niente può toglierti la gioia di essere vivo”
Lei donna, scienziata, esperta e prima ad aver avuto accesso a progetti ed esperimenti che nessuno aveva mai fatto prima non conta più il tempo che ha trascorso sott’acqua. Dieci anni fa aveva contato qualcosa come 7.000 ore, ma adesso sono molte di più.
E come tutte le storie di cambiamento, come tutte le storie di successo anche per lei c’è stato un anno. Quello che le ha cambiato la vita.
“Il 1964 è stato l’anno che ha senza dubbio segnato uno spartiacque nella mia vita.E’ stato quello della mia prima grande spedizione. Io ero l’unica donna. All’inizio a nessuno sembrava una cosa speciale, ma all’ultimo momento qualcuno si è chiesto se fosse un ostacolo. Avevo partecipato a lezioni in cui ero l’unica donna, ero cresciuta con due fratelli – a me e alla mia famiglia non sembrava un problema. Ma quando un giornalista mi ha intervistato prima della partenza della spedizione da Mombasa, a tutto il gruppo di scienziati è stato chiesto quali erano gli obiettivi di esplorazione dell’oceano, tranne che a me. Il giorno seguente il titolo del giornale era: “Sylvia Earle salpa con 70 uomini”, e il sottotitolo: “ma non si aspetta di avere problemi“. I problemi che ho affrontato sono stati gli stessi del resto dell’equipaggio, i problemi che si possono avere in una spedizione a bordo di una nave in mezzo al mare.
Ma la sua attività da questa spedizione esplode, fino ad arrivare ad attirare l’attenzione della NASA per un progetto, unico nel suo genere, studiare l’oceano da dentro l’oceano. E per lei fu la consacrazione. Il progetto si chiamava Tektite ed era un esperimento, il primo di vita in isolamento dentro l’oceano. Si sarebbe vissuto all’interno di un laboratorio realizzato sott’acqua. La marina militare americana era interessata a capire come avrebbe risposto la fisiologia umana nel vivere sott’acqua, che impatto per la salute e la psicologia. Lei invece voleva esplorare l’oceano dal suo interno. Infatti ecco cosa dice:
“Quello che interessava a me, come scienziata, era capire in che modo poter usare l’oceano come laboratorio, vivendo nell’oceano giorno e notte, scappare dal nostro bozzolo sulla barriera corallina per passare otto, dieci, dodici ore nell’oceano, per osservare i pesci di persona, vedere come interagivano tra di loro con occhi nuovi. Semplicemente, sentirmi a casa nell’oceano. Nessuno si aspettava che delle donne facessero richiesta, ma andò proprio così, e le nostre qualifiche erano buone tanto quanto quelle dei migliori degli uomini” .
Una spedizione all’interno degli abissi oceanici con sole donne. Mai fatta prima, mai pensata e mai programmata. A quei tempi non c’erano neanche astronaute donne nella NASA al tempo, e alla fine toccò a James Willer, il capo della missione, prendere una decisione. Probabilmente aveva un buon matrimonio, una brava madre, e un bel rapporto con le donne e la sua conclusione fu: “Se metà dei pesci sono femmine, credo che possiamo sopportare la presenza di un paio di donne nella missione“.
“Alla fine, secondo gli psicologi che ci osservavano 24 ore su 24, siamo andate incredibilmente d’accordo. Ci siamo divertite, e abbiamo passato più tempo in acqua degli altri team. Non perché dovevamo dimostrare qualcosa, ma perché lavoravamo a dei progetti che davvero richiedevano la nostra presenza in acqua per tutto quel tempo, osservando gli animali nel loro habitat. Alcuni pensarono che volevamo soltanto dimostrarci all’altezza degli uomini. Ma per favore! Era l’ultima cosa che avevamo in mente. Stavamo solo cercando di fare quello che eravamo lì per fare come scienziate. Il fatto che eravamo donne era solo un dettaglio”.
Ma oggi le donne nel mondo della scienza come si trovano? In che modo superano gli ostacoli e come vengono trattate, cosa e in che modo questo mondo fatto di uomini è cambiato?
“L’atteggiamento è cambiato, continua a cambiare enormemente. Si è detto che il successo delle donne nel progetto Tektite – e non intendo a livello fisico, ma di capacità… siamo andate d’accordo, siamo riuscite a risolvere i problemi, come semplici essere umani – ha incoraggiato la NASA a proseguire con il reclutamento delle donne. Spero sia vero. In ogni caso, ci sono voluti ancora anni, fino a metà degli anni 80, prima che le donne venissero davvero accettate come astronaute. Sarebbe dovuto accadere molto prima. Ma erano i piloti ad essere selezionati come astronauti inizialmente, e le donne non erano accettate in quei ruoli, non perché non fossero competenti, ma perché non avevano lo status. In ogni caso, il resto è storia. Adesso ci sono molte donne astronaute, nelle scuole di oceanografia e nelle scienze marine in tutto il mondo le donne spesso sono più numerose degli uomini… E non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui un titolo di giornale reciterà “Roberto salpa con 70 donne, ma non dovrebbe essere un problema”. Succederà un giorno”.
E la natura, l’oceano come sta cambiando. Quali sono i mutamenti peggiori e cosa possiamo fare ad oggi per salvare il suo habitat?
Come cambia la società e cambiato anche l’oceano, anche se in gran parte la società è cambiata in meglio, c’è tanto ancora da fare per arginare i gravi comportamenti umani.
Se solo applicassimo la regola d’oro, “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso“, agli uccelli e ai pesci e agli elefanti, ma anche ai bambini, insomma a chiunque, il mondo diventerebbe immediatamente un posto più pacifico, migliore. Basterebbe solo guardare agli altri con i loro occhi. Sono inorridita dal modo in cui trattiamo gli animali, dal modo in cui ci trattiamo l’uno con l’altro. I pesci sono trattati come oggetti, come se non avessero nessuna sensibilità, come se fossero solo cibo per noi. Abbiamo raggiunto un buon traguardo con le balene, le proteggiamo per motivi che vanno al di là del loro valore alimentare o di ciò che possono produrre. Che li si voglia mangiare, sfruttare come prodotti o considerarli come parte del mondo vivente, dobbiamo cambiare il nostro comportamento nei confronti del resto delle forme di vita sulla terra.
Il suo è un messaggio di speranza: viviamo nell’Antropocene, un periodo di dominio dell’uomo sulla natura, ma gli esseri umani non sono solamente una forza distruttrice, abbiamo finalmente la consapevolezza e le conoscenze necessarie per fare qualcosa.
Se non lo sapessimo, saremmo senza speranza. Gli elefanti sono intelligenti, i delfini sono molto intelligenti, probabilmente si chiedono cosa sono le stelle e che cosa c’è nell’oceano sotto di loro, nelle profondità dove non possono arrivare trattenendo il respiro. Noi possiamo scoprirlo, abbiamo quel margine. Abbiamo anche la responsabilità, abbiamo il dono e la necessità di usare quella conoscenza saggiamente, per il bene di tutta la vita sulla Terra. La vita continuerà a esistere, con o senza di noi. Ma se vogliamo avere un futuro lungo e duraturo per la civiltà, per i nostri figli e le persone a cui teniamo, dobbiamo davvero accelerare questo processo di guarigione del danno che abbiamo già fatto al mondo naturale. Dobbiamo proteggere le foreste, le aree dell’oceano che sono ancora in buone condizioni, la barriera corallina, le profondità marine, e risanare quello che possiamo.
Questo è il nostro momento: non lo è stato prima, e forse non lo sarà più.
Fonte @NationalGeographicItalia
I like the article